Elezioni USA: al Senato la battaglia decisiva

Al momento di discutere la forma di governo, i Founding Fathers, i padri costituenti, vollero che il Senato degli Stati Uniti fosse la camera ‘alta’, di rappresentanza degli Stati, per bilanciare la House of Representatives, la camera ‘bassa’, dove i rappresentanti dovevano invece riflettere la dimensione della popolazione di ogni Stato. Ecco perché uno Stato come la California, con quasi 40 milioni di abitanti, invia oggi a Washington 53 deputati, mentre il Wyoming, 500.000 abitanti, ne invia soltanto uno. Entrambi gli Stati, però, hanno due Senatori a testa, e cosi per tutti i 50 Stati USA.

L’intenzione dichiarata era quindi di creare un sistema di checks and balances, tale da permettere di salvaguardare gli interessi degli Stati federati rispetto a quello che doveva diventare un crescente controllo federale, con a capo il Presidente. Super maggioranze all’interno del Senato (60 senatori) furono inoltre concepite per passare ogni tipo di legislazione federale, creando de facto la necessità per i due principali partiti politici, Democratici e Repubblicani, di collaborare tra loro.

A 230 anni di distanza dalla Costituzione USA, tuttavia, quel sistema di governo appare in crisi. Una chiara tendenza verso la polarizzazione in due blocchi contrapposti si è andata accentuando negli ultimi 15 anni, e l’agenda politica di ogni Presidente passa ormai attraverso il controllo delle due Camere. Le principali leggi approvate da Obama, tra cui la riforma sanitaria, sono infatti state approvate dal Senato con i soli 60 voti dei Democratici, grazie alla straordinaria performance di quel partito alle elezioni del 2008. Due anni dopo, i Repubblicani avevano già riconquistato la Camera dei Rappresentanti, vanificando di fatto ogni ulteriore possibilità di nuove riforme profonde dell’amministrazione Obama. Dopo le elezioni del 2014, i Repubblicani, avendo ripreso anche il controllo del Senato, sono poi stati in grado di bloccare completamente l’agenda del Presidente, potendo a loro volta proporre le leggi e organizzarne il dibattito.

Ecco perché l’elezione di un terzo del Senato, il prossimo novembre, rappresenta forse la principale sfida politica in gioco tra i due partiti. L’elezione Presidenziale, dopo le ultime gaffes di Trump e per le ragioni descritte in precedenza sembra infatti sempre più inclinata verso una comoda vittoria della Clinton. La maggioranza Repubblicana alla Camera dei Rappresentanti non è in discussione, grazie al gerrymandering messo in atto dalle legislature statali controllate dai Repubblicani nel 2010, che ha ridisegnato i distretti elettorali secondo una chiara divisione politica dove l’alternanza è oggi molto difficile. Al Senato, invece, i giochi sono aperti, e la maggioranza (attualmente 54-46 per i Repubblicani) sarà decisa da un pugno di Stati. Questo perché, fino ad ora, alcuni candidati Repubblicani sono riusciti, anche se faticosamente, a distanziarsi dalla retorica populista di Trump, e attualmente ottengono migliori intenzioni di voto, secondo la media dei sondaggi, del miliardario newyorchese.

Tra gli elementi decisivi che decideranno l’elezione senatoriale ci sono il fundraising e la name recognition. In seguito alla sentenza della Corte Suprema Citizens United (2010), la crescente importanza dei gruppi di donatori esterni, costituitisi in Political Action Committees (PACs) non legati, come le campagne dei candidati, a tetti di spesa, ha infatti prodotto un flusso di denaro costante in sostegno ai candidati, accrescendone presenza mediatica e conoscenza tra gli elettori, entrambi fondamentali al momento del voto. Sebbene Super PACs sostengano candidati su entrambi i lati dell’arco politico, ed abbiano fino ad oggi speso una somma che si avvicina ai 700 milioni di dollari, i Super PACs che sostengono candidati Repubblicani al Senato, quali il Senate Leadership Fund, il Club for Growth o la US Chamber of Commerce sono molto più numerosi e attivi dei Super PACs pro-Democratici quali ad esempio Priorities USA, focalizzato sull’elezione della Clinton alla Casa Bianca.

Così, i seggi di Senatori quali Rob Portman in Ohio, Marco Rubio in Florida, o il seggio vacante in Nevada, all’inizio considerati battleground States, appaiono oggi fuori portata per i Democratici, che hanno espresso candidati meno finanziati e meno conosciuti. Il tentativo dei Democratici di legare questi candidati a Trump non ha inoltre sortito l’effetto desiderato, visto che i Repubblicani hanno condotto con successo una campagna elettorale basata sulle proprie iniziative legislative e orientazioni politiche, più in linea con le posizioni classiche del Grand Old Party, quali il taglio delle tasse o la riduzione delle regolamentazioni del Governo federale.

Tali campagne hanno avuto meno successo in Stati tradizionalmente Democratici, dove il nome di Trump appare davvero toxic, quali Illinois, Wisconsin (in maggior misura), Pennsylvania e New Hampshire (in minor misura). In questi casi i candidati Democratici sono stati in grado fin da subito di sfruttare le incertezze degli avversari nel distanziarsi dal Tycoon miliardario, e appaiono oggi in testa nei sondaggi. Discorso a parte va fatto per l’Indiana, Stato solidamente Repubblicano ma dove il candidato Democratico, Evan Bayh, è stato già senatore e governatore, ed ha una name recognition nettamente maggiore del suo avversario. Se i Democratici riuscissero a strappare questi cinque Stati ai Repubblicani, riconquisterebbero il Senato, e in quel caso potrebbero pure permettersi di perdere il Nevada, dove il leader Democratico Harry Reid si ritira dopo cinque legislature. A parità di seggi (50-50) infatti, il vice-Presidente diventa il tie-breaker, il 51° voto. Se Hillary Clinton diventasse Presidente, il suo vice Tim Kaine avrà dunque questo ruolo decisivo. Non va dimenticato che un ulteriore cuscinetto per i Democratici è dato dalle inaspettate campagne competitive dei candidati Deborah Ross in North Carolina e Jason Kander in Missouri, inizialmente sottovalutate dai rispettivi avversari Repubblicani, ma che oggi sono considerate toss-up, ovvero alla pari, e possono rappresentare le vere sorprese di questo ciclo elettorale.

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