Rage against Globalization

Poco più di un milione di voti: è questa la distanza che separa il President-elect, Donald Trump, dalla rivale, Hillary Clinton, a conteggio quasi ultimato. Quel milione di voti è in realtà il vantaggio della Clinton nel voto popolare a livello nazionale, ma gli Stati Uniti hanno un sistema di voto dove il collegio elettorale viene deciso su base statale, e quindi quel milione di voti di vantaggio non conta nulla. Ciò che conta è vincere gli stati, ed è li che Trump ha stravolto tutte le previsioni degli analisti politici e dei sondaggisti d’opinione.

Rispetto alla mappa che nel 2012 aveva assegnato la vittoria a Barack Obama, Trump ha infatti riconquistato sei Stati-chiave: Florida, Ohio, Iowa, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin. Se però i primi tre sono tradizionali battleground States, la cui tendenza politica cambia cioè ciclicamente, gli ultimi tre non votavano per il candidato Repubblicano dagli anni ’80, dai tempi cioè di Ronald Reagan.  La vittoria di Trump si è quindi materializzata negli Stati che costituiscono la cosiddetta Rust Belt, la cintura della ruggine, dove si estrae il carbone e dove storicamente si concentrano le industrie manufatturiere e automobilistiche più importanti del Paese.

Il perno della vittoria di Trump si spiega osservando tre fattori: l’educazione, la razza e l’economia.  Trump ha infatti travolto la Clinton tra gli elettori non laureati, tra i bianchi e tra i cosiddetti ‘perdenti dalla globalizzazione’.  Questi ultimi sono lavoratori che negli ultimi 25 anni hanno vissuto personalmente il declino dell’industria manufatturiera negli Stati Uniti senza riuscire a riciclarsi sul mercato del lavoro. Trump ha avuto la lucidità di corteggiare questi elettori facendo campagna: a) contro gli accordi commerciali di libero commercio che, a suo dire, hanno trasferito questi posti di lavoro in Messico e altrove; b) per limitare l’immigrazione, ovvero, nella sua ottica, impedire che lavoratori stranieri possano ‘rubare’ i posti di lavoro; c) contro ogni patto globale contro il surriscaldamento del pianeta, al fine di rilanciare l’estrazione di minerali fossili ed il loro utilizzo a fini industriali.

Dall’ altro lato la Clinton ha certo beneficiato del voto dei laureati e delle minoranze afroamericana, asiatica e latina,  soprattutto nelle grandi città, ma il peso dell’elettorato bianco, circa due terzi del totale dell’elettorato, rimane preponderante. Gli afroamericani hanno votato in minor misura per la Clinton rispetto ad Obama, ma Obama si era anche ben difeso tra i votanti bianchi, riuscendo a passare un messaggio economico forte, cavalcando la ripresa economica dopo la crisi del 2008, e salvando l’industria automobilistica di Detroit allora osteggiata dai Repubblicani.

Questa elezione illustra in realtà un cambiamento epocale, sia nell’approccio alla campagna elettorale di un candidato anti-politico sia nell’orientamento delle politiche pubbliche. Infatti, sin dalla fine della guerra fredda, le diverse amministrazioni democratiche e repubblicane, pur con le debite differenze, hanno promosso il libero scambio come proiezione della pax americana nel resto del mondo. L’opposizione alla globalizzazione veniva sempre identificata con un piccolo gruppo di estremisti, incapaci di adattarsi alla nuova era e contrari agli interessi americani. Trump ha rivoluzionato questi concetti, opponendosi frontalmente alla globalizzazione su basi populiste e identificandosi per lo più come un isolazionista in politica estera, sfidando così gran parte dell’establishment (repubblicano durante le primarie, democratico durante le elezioni presidenziali).  E gli elettori lo hanno premiato. La vittoria è stata poi completata dal fatto che i Repubblicani sono riusciti a mantenere il controllo del Senato e della Camera dei Rappresentanti. Il ‘governo diviso’ degli ultimi sei anni della presidenza Obama è quindi alle spalle, e i Repubblicani avranno, da Gennaio 2017, piena capacità per approvare leggi senza bisogno di sostegno da parte dei Democratici.

Qui rimane l’ultimo, e forse più importante, interrogativo post-elettorale: riuscirà un Presidente così anti-convenzionale come Donald Trump a mettere d’accordo le diverse anime all’interno del Grand Old Party? Se la risposta sarà positiva, molte delle profonde trasformazioni operate da Obama nella società americana durante gli ultimi otto anni potrebbero presto diventare una parentesi della storia.

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