Noi, orfani del 4 dicembre

Noi siamo quelli che, nei mesi che hanno preceduto il referendum costituzionale del 2016, ci siamo battuti a denti stretti, casa per casa, cercando di convincere gli italiani della bontà di una riforma che avrebbe cambiato la democrazia nel nostro paese. La diagnosi alla base del nostro ragionamento era precisa: i problemi dell’Italia non hanno a che fare con la capacità del governo di turno, con le sue buone o cattive intenzioni, con le competenze dei leader al comando. I problemi dell’Italia hanno a che fare con la disfunzionalità del sistema politico che, per come è congegnato tra legge elettorale e modello parlamentare, incentiva in modo strutturale la formazione di coalizioni politiche disomogenee, lo sproporzionato potere di influenza di attori politici minoritari, il trasformismo. Le conseguenze più gravi che ne risultano sono due: l’incapacità della politica di portare avanti programmi coerenti e la possibilità della stessa e dei suoi attori fondamentali (partiti, leader, istituzioni) di evadere sistematicamente la responsabilità di tale incapacità. La colpa dei fallimenti ripetuti e delle mancate promesse elettorali è sempre di qualcun altro, allo stesso tempo di tutti e di nessuno. Un terreno ottimale affinché proliferino le distorsioni della realtà e possano avere uguale fortuna i venditori di pane e di focaccia.

Immancabilmente, assistiamo in queste ore allo spettacolo dello scaricabarile. Per Salvini la colpa dell’insuccesso del governo gialloverde, è di Di Maio e di Conte, signor-no e nemici del popolo, mentre per Di Maio e Conte è dello stesso Salvini, autoritario ed accentratore. Nel caso la frattura fra gli ex-alleati si ricomponesse, la colpa naturalmente sarà del PD, che lasciò il disastro, o dell’Europa nemica del popolo. La storia di sempre, quella per cui, limitandosi alla Seconda Repubblica, i fallimenti dei governi di Berlusconi dipesero: per il Cavaliere, dai traditori, prima Bossi e poi Fini e Casini, dall’Europa e dalla magistratura rossa; per Fini e Casini, dalle follie di Berlusconi, dalle intemperanze della Lega, dalla macchina del fango; per la Lega, dai traffici di Fini e Casini, dai paletti dell’Europa, dalle manovre sottobanco dei burocrati di Roma ladrona; ecc. ecc. Stesso racconto per i fallimenti dei governi di centro-sinistra scaturiti, a seconda dei punti di vista: dai traditori, prima Bertinotti, poi Rossi e Turigliatto; dalle manovre losche di Berlusconi; dal boycott più o meno esplicito delle minoranze interne al partito; dallo scivolamento a destra dei leader di turno; dai bombardamenti in Kosovo; dalla rottura con i sindacati; ecc. ecc.

La prospettiva avanzata dalla riforma del 2016 era proprio quella di superare questo stato di cose. Permettere agli elettori di dare un mandato forte e chiaro a una forza politica che, attraverso il ballottaggio, avrebbe potuto contare con una maggioranza parlamentare capace di sostenere la sua azione senza la necessità di ricorrere ad accordi ed accordicchi, libera dalle minacce di veto di alleati casuali e minoranze riottose. Si sarebbe trattato di un salto epocale, di una vera rivoluzione, che sarebbe andata a modificare uno dei punti chiave alla base del sistema e della cultura politica italiana. Il passaggio ad un sistema maggioritario avrebbe implicato non solo la possibilità per ognuna delle forze politiche di trovarsi a governare, avendone piena capacità e dunque responsabilità, qualcosa che abbiamo visto essere inaudito, ma anche e contestualmente l’accettazione implicita da parte di tutte le forze politiche che a governare pienamente possa essere una forza politica diversa. Quest’ultimo punto, che in qualsiasi democrazia liberale evoluta dovrebbe essere qualcosa di ovvio, banale, in Italia rimane un miraggio. Nel nostro paese, il gioco politico si regge e si riproduce sul presupposto che l’altra parte politica sia illegittima per cui la possibilità che essa governi rappresenta un rischio per il paese, un male da evitare a tutti i costi. Le ammucchiate, i trasformismi, le coalizioni monster trovano sempregiustificazione se dall’altra vi è un pericolo da scongiurare sia esso rappresentato dai comunisti o dai fascisti, da Berlusconi o da Renzi, dai populisti di ogni colore o dai neofascisti. La democrazia italiana accetta la sua inefficienza e irresponsabilità, e tutti i danni che ne derivano, pur di evitare il rischio, considerato ancora peggiore, che a governare con efficacia possa essere una delle sue parti. Meglio che nessuno possa fare nulla a che qualcuno possa fare qualcosa.

Chi ha votato sì al referendum del 2016 voleva rompere questo paradigma, superarlo definitivamente. Chi ha votato sì, e lo ha fatto con piena coscienza di quello che faceva e non strumentalmente in attesa di un risultato elettorale che in quel momento sembrava plausibile, assumeva la possibilità che a vincere le elezioni successive potesse anche essere la parte politica opposta. La scommessa di fondo era proprio quella di credere che solo una democrazia dove le parti politiche si riconoscono come ugualmente legittime e accettano la possibilità di alternarsi al potere possa maturare definitivamente e produrre nel complesso risultati migliori per tutti.

La svolta di Renzi di questi giorni, il suo auspicio di una palude giallorossa purché non sia Salvini, a noi che abbiamo votato si al referendum del 2016, ci lascia orfani della guida che fino all’altro ieri aveva portato avanti con più forza e coerenza la domanda di cambiamento. Al di là delle ragioni che l’hanno motivato, tale passaggio ci obbliga a una riflessione su come rilanciare quella domanda prescindendo, al meno in questa fase, dalla sua leadership. Questo distanziamento critico da Renzi non può essere confuso tuttavia, come opportunisticamente qualcuno vorrebbe, con una presa di distanza dall’esperienza politica del suo governo o, peggio ancora, con un processo di convergenza di vedute con chi, contro quell’esperienza politica, ha remato in tutti i modi e oggi, per pura contrarietà e in modo immancabilmente trasformistico, si trovano a sostenere la necessità di elezioni senza paura. Gli stessi che il referendum del 2016 lo hanno boicottato e che fino a ieri sostenevano la necessità di dialogo con i 5S.

Noi che abbiamo votato sì al referendum oggi crediamo che, tenuto conto delle prerogative del Capo dello Stato, si debba andare a votare. Rifiutiamo l’idea di pericoli incombenti e ancor più quella visione distorta per cui la democrazia può essere considerata pienamente accettabile solo il giorno che prefigura i risultati auspicati. Crediamo che debbano essere le cittadine e i cittadini di questo paese a decidere chi debba governare e con quale forza e rimaniamo convinti che i danni maggiori alla collettività non li facciano le decisioni politiche ma il fatto che la responsabilità di tali decisioni (o della loro assenza) e delle loro conseguenze possa essere costantemente evasa dai loro autori. Se a vincere le elezioni sarà Salvini è da auspicarsi che possa farlo pienamente, in modo da essere costretto ad assumersi pienamente e senza più alibi la paternità dei sui atti permettendo in questo modo agli elettori, tornata l’occasione, di scegliere con cognizione di causa se confermarlo o mandarlo a casa.

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